Ho visto Macao di fretta. Zaino in spalla, macchina
fotografica al collo, testa bassa, camminata veloce e decisa, sguardi fugaci
qua e là. In quattro ore malcontate, ho battuto
l’intera isola; o quasi. E’ piccola, sì, ma se il mare non fosse stato così
mosso da tenermi sempre allerta, sul traghetto di ritorno sarei piombato,
distrutto, in un sonno profondo.
Colpa mia. Sono arrivato a Macao quando già era pomeriggio.
La mattina mi era servita per recuperare il sonno perso dopo l’ennesima notte trascorsa
a fare a cazzotti col jet lag.
Il biglietto da visita di Macao, dal finestrino del traghetto |
Mostro il passaporto, abbranco una cartina gratuita al banco
dell’ufficio turistico, ignoro le signorine, maggiorenni o poco più, che i
casinò dell’isola usano come sirene tentatrici. Partenza, via. Già in
maglietta, cosciente che ci sarebbe stato da sudare.
Sbaglio strada, subito. Capiterà spesso. Torno indietro e,
finalmente, trovo la salita che mi porta alla Fortezza di Guia. La strada si
arrampica. E non poco. Sfrutto con gusto gli ascensori che mi evitano fatiche
supplementari. Meglio risparmiare ogni minima energia. Previdente, per una
volta.
Il faro è carino. La fortezza pure. Per rapirmi il cuore ci vuol ben altro.
La Fortezza è classico luogo da book matrimoniale |
E' la veduta a far la differenza: la zona del terminal
marittimo, con il Friendship Bridge che taglia il mare; il multiforme skyline
disegnato dalle fantasiose architetture dei casinò; infine, la distesa
di palazzine popolari e di viette strette. In nemmeno 360°, tre mondi diversi. Ed è sempre Macao.
Un’ora dopo siedo su una poltroncina in attesa del mio
passaggio per l’Island di Hong Kong. Affamato e stravolto, ma
soddisfatto.
La città vecchi dalla Guia Hill: la porzione di panorama più interessante (per me) |
Un ragazzo inglese vorrebbe fare due chiacchiere. Pure lui ha
deciso di farsela a piedi. Solo che è già di ritorno. E non sa la strada. Me la
chiede; io rispondo distratto, dando indicazioni talmente sommarie da
risultare, con ogni probabilità, inutili. Sono pur sempre di fretta.
A capofitto giù dalla collinetta da Guia, considerando il
giusto la bella vegetazione e i vecchietti impegnati col tai chi.
Tap Seac Square è
un check-point utile. Da lì posso raggiungere il cuore della città senza troppi
sforzi. Solo che mi lascio trascinare dall’incredibile silhouette dell’Hotel
Lisbon: una palma gigantesca che
proietta ombra su tutto ciò che la circonda. Cambio rotta solo per vederla da
vicino.
La grande palma svetta su tutto |
Ricalcola percorso:
Lago di Nam Van, Collina di Penha e A-Ma Temple. Che è, tra l’altro, uno dei
must che mi sono imposto ancor prima di lasciare Hong Kong.
La Collina di Penha
è un inatteso mini-Mortirolo. 200% di pendenza, trangugiando delle palline di
pesce al curry prese al 7Eleven che
si trova di fronte alla chiesa di San Lorenzo. Arrivo su, guardo giù, faccio
una foto e riparto. In discesa. Grazie a Dio.
Dalla Collina. La palma è sempre lì... |
Perdo di nuovo la bussola, e quando penso di aver mancato la
svolta giusta per il Temple, eccolo lì.
Mi consola: ho versato i primi litri di sudore per un motivo
valido. Colorato, profumato d’incenso, inflazionato ma ancora carico di
significato: A-Ma Temple promosso e stampato nella memoria.
Uno degli altari "secondari" del tempio |
Rua Do Almirante Sergio è quella giusta per dirigermi verso
il centro. Stavolta ci ho preso. Sorpasso gli altri pedoni, mi soffermo il
giusto sulle stradine interne, dove c’è chi pulisce il pianerottolo, chi rientra
con la spesa e chi fa manovra in Lamborghini. Bah. Avrà avuto fortuna in
qualche casinò.
Rua da Felicidade prima, e non solo per il nome speranzoso
(saprò dopo che, una volta, lì c’erano solo locali a luci rosse), Rua do
Seminario poi. Eccomi in Largo do Senado.
E’ capodanno, e si fa festa. Eccome. La piazza è piena, nel mezzo campeggiano
dei polli gonfiabili in onore dell’animale dell’anno. E le lanterne, ovviamente,
colorano la via che porta a Largo de Sao
Domingos. Mi piacciono. Non i polli, le lanterne. Fanno proprio…. Asia
(cara banalità).
Le lanternine che fanno tanto Asia in festa |
Fino alla chiesa di San Domenico si respira e ci si muove
con agilità. Basta voltare l’angolo ed ecco il fiume umano che scorre verso le rovine della Chiesa di San Paolo: il
vero simbolo di Macao.
Non è cambiato nulla: sono sempre di fretta. E allora
sgomito, sguscio, mi innervosisco, quasi corro. Slalom fino alla scalinata. Sorpreso dalla bellezza di ciò che
vedo, risalgo i gradini e mi avvicino alla “Porta
del Nulla”: la facciata tutta bassorilievi che ci ricorda come lì, prima di
un funesto incendio di inizio Ottocento, ci fosse una chiesa. Progettata da un
gesuita italiano, tra l’altro.
E' davvero solo facciata: dietro, il nulla |
Dopo il selfie d’ordinanza, peraltro cestinato senza troppe
remore, passeggiatina nei giardini del
Forte del Monte. Ovviamente, tenendo d’occhio l’orologio.
Sospirone profondo, occhiata alla cartina (ma tanto l’avrei
riguardata ogni 20 metri) e via di nuovo. Destinazione terminal marittimo. Sì, il mio giro è finito. Posso
tranquillamente puntare la Collina da Guia e da lì raggiungere il traghetto.
Dopo cinque minuti perdo di nuovo l’orientamento. Una
ragazza si leva le grandi cuffie e chiede se mi serve aiuto. “Grazie.
Dovrei prendere il ferry: che dici di questa via?”: le chiedo mostrandole
la mappa. “Mmm… Boh, non so usare una cartina”: mi dice sogghignando. Come se
maneggiassi uno strumento fenicio. Ribatto pensando decida di affidarsi alle
sue conoscenze di indigena o, al limite, all’iphone che ha in mano. “Mi spiace, non so aiutarti in realtà”. La persona più inutile
della storia.
Glisso e scelgo la
mia strategia: Hotel Lisbon e tragitto dell’andata, alla rinfusa.
Ignoro i piedi dolenti, circumnavigo la grande palma e mi butto
sul lungomare. Che non è proprio una promenade da urlo, ma è funzionale.
Per chi non lo sapesse, questa è la bandiera di Macao |
Per leggere qualcosa su Hong Kong:
Se andate sulla pagina Facebook di MyTravelmate, trovate i video che ho girato in città...
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