Trasparenze e mattoni: questa è Amburgo.
Una raffinata trama di consistenze, in un
continuo gioco di vedo e non-vedo.
Ecco perché non mi sorprende che la Elbphilarmonie, seppur
terminata da poco, sia già diventata simbolo della città. Ne è un riassunto
perfetto. Sineddoche. Ancora una volta, trasparenze e mattoni.
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Che si trovi in Mahatma-Ghandi Brucke è solo la ciliegina sulla torta |
Herzog & de Meuron hanno rispettato i connotati di
Amburgo. Hanno ripreso l’anima operaia dello Speicher Stadt, il vecchio
quartiere portuale, e ne hanno fatto tesoro. Hanno scelto di giocare coi
materiali e con le forme. Per ben quindici anni, prima di giungere a questo
spettacolare risultato. Si sono ispirati a una tenda, ma ben dice Stefano
Vastano de l’Espresso (dal numero del
18 dicembre 2016): “La cresta di un’onda
ghiacciata. Le vele di un vascello fantasma”.
Metafora azzeccata come non mai. Me ne sono convinto dopo aver attraversato l’Elbe Tunnel ed essermi ritrovato dall’altra parte del fiume. Davanti a me il molo del Fischmarket di Saint Pauli; dietro e sopra la testa le gru da cui pendono i container; sulla destra il vascello fantasma che incede e sembra pronto a solcare la città. Con le vele, 1100 pannelli di vetro, assorbite dal cielo umido.
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Il tunnel che collega le due sponde è a 21 metri di profondità ed è lungo 500 metri |
Come se davvero ci si trovasse in un film sul paranormale. O vicino alla barriera, in attesa che, da un momento all’altro, compaiano gli Estranei (mi perdoneranno i colpevoli – lo siete! - di non seguire Game of Thrones).
Nel silenzio assoluto. Perché la nebbia, fitta e costante, ovatta
lo skyline e rende l’atmosfera ancor più straordinaria. Letteralmente: fuori
dall’ordinario.
Come è tutta la parte vecchia della città. Blocchi di
edifici tutti uguali tra loro, delineati solo dal rosso ruggine dei mattoni.
Canali e panorami tutti uguali, ponti che sembrano ripetersi, sensazione di
girare su se stessi: un’esperienza quasi alienante.
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Davvero impossibile fare foto brutte |
C’è chi potrebbe definire Amburgo futuristica, chi
post-apocalittica. Non so. Sono sicuro che, se fossi un regista in cerca di uno
scenario suggestivo, intrigante e ambiguo, la sceglierei.
Una sensazione straniante che mi ha accompagnato in tutti i
tre giorni spesi nella città anseatica. Che è stata fredda, e non solo per una
questione di clima. Nonostante il periodo di festa e la voglia di salutare un nuovo
anno.
Poche concessioni alla vivacità, quasi nulle le variazioni
cromatiche. Tutto piatto, scuro, serio. Se si esclude il trionfo di neon e
insegne di Reeperbahn, la zona a luci rosse che fa da spartiacque tra i grandi
depositi di cacao e tabacco riconvertiti in palazzi di lusso e il quartiere di
St. Pauli, ben più umile e anti-sistema. Come la sua squadra.
Nelle vie principali non c’è traccia di celebrazioni
imminenti. Davanti al Rathaus, una sola casetta di legno, chiusa, in ricordo di
un Natale che sembra passato da mesi. E invece era ieri.
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Nemmeno una bancarella col gluhwein... |
Mi chiedo il perché. Poi vedo i new jersey che bloccano
l’accesso alla piazza e capisco: il ricordo della tragedia di Berlino è troppo
fresco. Brindisi collettivi annullati, mercatini smantellati.
Rimango a bocca aperta, perciò, quando, poco prima della
mezzanotte, il cielo comincia a illuminarsi. Un caleidoscopio che continuerà
per decine di minuti. Famiglie intere riunite davanti al portone di casa e
armate fino ai denti di bengala, petardi e tutto ciò che può rompere il buio.
Pure questo, stra-ordinario.
La mattina seguente, tutti dormono. Persino il Domino’s
davanti alla mia casa è chiuso. Rarità. Il bus che mi porta verso il centro
taglia il quartiere di Altona: case ordinate, tetti spioventi, sensazione di
benessere. E i papà che ripuliscono la strada dalle cartucce della notte
precedente.
La stessa scena mi si presenta il giorno dopo, a Paderborn,
quattro ore di bus più a sud.
Sto in distretto residenziale, ospite di una ragazza
che lì studia e che, per recuperare parte delle spese, subaffitta il suo
piccolo appartamento. Un letto rosa, come la parete, un piccolo bagno, una scrivania per studiare
piazzata davanti all’unica finestra, una televisione sovradimensionata e un
microonde. La cucina è esterna, in comune col dirimpettaio. Non manca nulla.
Un quadretto che descrive alla perfezione la ordinata e composta
Paderborn. Una cittadina che sta bene, di quella provincia buona che non ha la
smania, e nemmeno la necessità, di scimmiottare le metropoli. Vive di ciò che
ha, con le proprie abitudini.
La piazza del comune è sobria, simile a quello di un paese
montano italiano. Ha ben poco di impressionante, se si tralascia l’imponente
edificio del Ginnasio.
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Come scuola, davvero gran bella |
Da lì parte una via piena zeppa di negozi. Qualcosa che mai
ti aspetteresti. Due, trecento metri di vetrine, luci, marche famose, un paio
di centri commerciali, fast food, chioschi di salsicce. Out of topic.
Meglio, decisamente, la Domplatz, dove spicca la cattedrale
trecentesca. Tetti appuntiti e azzurrini, linee ritte e pietra. Vista di sera,
mezza nascosta nel buio, ti coglie impreparato. Anche perché non c’è nessun
espediente studiato per esaltarne la bellezza. Il turista non è una priorità.
Se sei un visitatore, prendi il bus e vai a Schloss Neuhaus.
Sta a una mezz’oretta scarsa di bus ed è il borghetto dove fare la camminata.
Paesino piccolo, dominato dal castello rinascimentale, con annesso parco, dove
passare il pomeriggio con la famiglia. A braccetto con la moglie o sdraiato con
gli amici.
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Un telo, due birre, un pallone: così, il parco avrebbe un gran perchè |
E’ bellino. Ma non cattura.
Lo fa, al contrario, l’Heinz Nixdorf MuseumsForum: il più
grande museo di computer al mondo. Mi aspetto un pomeriggio noioso; ne esco dopo
ore, soddisfattissimo.
Paderborn finisce qui. Come mi dirà Renè, il ragazzo che mi
dà un passaggio verso Dortmund, Paderborn va presa per quello che è: “Una tranquilla e onesta cittadina per
famiglie”.
Accosta con la sua Micra rossa, dal motore che va come un
minipimer, davanti alla stazione. Mi saluta e mi augura di godermi la città,
dove lui è stato solo una volta nella vita, perché “Boh, non c’è niente di bello da vedere”.
Aveva ragione. A parte stadio e museo del Borussia Dortmund,
non c’è nulla di interessante. Qui si lavora e si produce. Operaia. Per
monumenti e arzigogolii, rivolgersi altrove.
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Mi spiace per Signal Iduna, ma, per me, sarà sempre il Westfahlen |
Renè prima, Maurizio poi: “Ah sei italiano! E cosa diavolo ci fai da ste parti!?”. “Non so, vedo cose nuove”.
Ancora mi
chiedo perché non gli ho chiesto cosa lui, napoletano di meno di trent’anni,
facesse lì.
Ad Hagen, mezz’oretta di treno da Dortmund, tra
vallate e paesaggi dalle grandi potenzialità. Un freddo gelido, secco. Pare di
essere in alta montagna.
Ancora mi sento nelle ossa la nebbia di Amburgo: motivo
buono per starmene in casa due giorni, uscendo solo per comprare pane e
fazzoletti al negozio all’angolo gestito da un indiano.
Questo il racconto della mia permanenza. Qui, invece, i link ai post riguardanti i burrascosi viaggi di andata e ritorno:
- Di consigli sbagliati, aerei persi e bus poco coraggiosi
Ad Amburgo ho visitato anche il fantastico museo Wondelund:
- Amburgo: foto dal Miniature Wunderland
Ad Amburgo ho visitato anche il fantastico museo Wondelund:
- Amburgo: foto dal Miniature Wunderland
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