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martedì 17 gennaio 2017

Amburgo, Paderborn, Dortmund: il mio freddo capodanno in Germania


Trasparenze e mattoni: questa è Amburgo.

Una raffinata trama di consistenze, in un continuo gioco di vedo e non-vedo.

Ecco perché non mi sorprende che la Elbphilarmonie, seppur terminata da poco, sia già diventata simbolo della città. Ne è un riassunto perfetto. Sineddoche. Ancora una volta, trasparenze e mattoni. 

Che si trovi in Mahatma-Ghandi Brucke è solo la ciliegina sulla torta

Herzog & de Meuron hanno rispettato i connotati di Amburgo. Hanno ripreso l’anima operaia dello Speicher Stadt, il vecchio quartiere portuale, e ne hanno fatto tesoro. Hanno scelto di giocare coi materiali e con le forme. Per ben quindici anni, prima di giungere a questo spettacolare risultato. Si sono ispirati a una tenda, ma ben dice Stefano Vastano de l’Espresso (dal numero del 18 dicembre 2016): La cresta di un’onda ghiacciata. Le vele di un vascello fantasma”. 

    


Metafora azzeccata come non mai. Me ne sono convinto dopo aver attraversato l’Elbe Tunnel ed essermi ritrovato dall’altra parte del fiume. Davanti a me il molo del Fischmarket di Saint Pauli; dietro e sopra la testa le gru da cui pendono i container; sulla destra il vascello fantasma che incede e sembra pronto a solcare la città. Con le vele, 1100 pannelli di vetro, assorbite dal cielo umido. 


Il tunnel che collega le due sponde è a 21 metri di profondità ed è lungo 500 metri

Come se davvero ci si trovasse in un film sul paranormale. O vicino alla barriera, in attesa che, da un momento all’altro, compaiano gli Estranei (mi perdoneranno i colpevoli – lo siete! -  di non seguire Game of Thrones).

Nel silenzio assoluto. Perché la nebbia, fitta e costante, ovatta lo skyline e rende l’atmosfera ancor più straordinaria. Letteralmente: fuori dall’ordinario.

Come è tutta la parte vecchia della città. Blocchi di edifici tutti uguali tra loro, delineati solo dal rosso ruggine dei mattoni. Canali e panorami tutti uguali, ponti che sembrano ripetersi, sensazione di girare su se stessi: un’esperienza quasi alienante. 

Davvero impossibile fare foto brutte

C’è chi potrebbe definire Amburgo futuristica, chi post-apocalittica. Non so. Sono sicuro che, se fossi un regista in cerca di uno scenario suggestivo, intrigante e ambiguo, la sceglierei.

Una sensazione straniante che mi ha accompagnato in tutti i tre giorni spesi nella città anseatica. Che è stata fredda, e non solo per una questione di clima. Nonostante il periodo di festa e la voglia di salutare un nuovo anno. 

Poche concessioni alla vivacità, quasi nulle le variazioni cromatiche. Tutto piatto, scuro, serio. Se si esclude il trionfo di neon e insegne di Reeperbahn, la zona a luci rosse che fa da spartiacque tra i grandi depositi di cacao e tabacco riconvertiti in palazzi di lusso e il quartiere di St. Pauli, ben più umile e anti-sistema. Come la sua squadra.

Nelle vie principali non c’è traccia di celebrazioni imminenti. Davanti al Rathaus, una sola casetta di legno, chiusa, in ricordo di un Natale che sembra passato da mesi. E invece era ieri. 

Nemmeno una bancarella col gluhwein...

Mi chiedo il perché. Poi vedo i new jersey che bloccano l’accesso alla piazza e capisco: il ricordo della tragedia di Berlino è troppo fresco. Brindisi collettivi annullati, mercatini smantellati.

Rimango a bocca aperta, perciò, quando, poco prima della mezzanotte, il cielo comincia a illuminarsi. Un caleidoscopio che continuerà per decine di minuti. Famiglie intere riunite davanti al portone di casa e armate fino ai denti di bengala, petardi e tutto ciò che può rompere il buio.

Pure questo, stra-ordinario.

La mattina seguente, tutti dormono. Persino il Domino’s davanti alla mia casa è chiuso. Rarità. Il bus che mi porta verso il centro taglia il quartiere di Altona: case ordinate, tetti spioventi, sensazione di benessere. E i papà che ripuliscono la strada dalle cartucce della notte precedente.

La stessa scena mi si presenta il giorno dopo, a Paderborn, quattro ore di bus più a sud.

Sto in distretto residenziale, ospite di una ragazza che lì studia e che, per recuperare parte delle spese, subaffitta il suo piccolo appartamento. Un letto rosa, come la parete, un piccolo bagno, una scrivania per studiare piazzata davanti all’unica finestra, una televisione sovradimensionata e un microonde. La cucina è esterna, in comune col dirimpettaio. Non manca nulla.

Un quadretto che descrive alla perfezione la ordinata e composta Paderborn. Una cittadina che sta bene, di quella provincia buona che non ha la smania, e nemmeno la necessità, di scimmiottare le metropoli. Vive di ciò che ha, con le proprie abitudini.

La piazza del comune è sobria, simile a quello di un paese montano italiano. Ha ben poco di impressionante, se si tralascia l’imponente edificio del Ginnasio

Come scuola, davvero gran bella

Da lì parte una via piena zeppa di negozi. Qualcosa che mai ti aspetteresti. Due, trecento metri di vetrine, luci, marche famose, un paio di centri commerciali, fast food, chioschi di salsicce. Out of topic.

Meglio, decisamente, la Domplatz, dove spicca la cattedrale trecentesca. Tetti appuntiti e azzurrini, linee ritte e pietra. Vista di sera, mezza nascosta nel buio, ti coglie impreparato. Anche perché non c’è nessun espediente studiato per esaltarne la bellezza. Il turista non è una priorità.

Se sei un visitatore, prendi il bus e vai a Schloss Neuhaus. Sta a una mezz’oretta scarsa di bus ed è il borghetto dove fare la camminata. Paesino piccolo, dominato dal castello rinascimentale, con annesso parco, dove passare il pomeriggio con la famiglia. A braccetto con la moglie o sdraiato con gli amici. 

Un telo, due birre, un pallone: così, il parco avrebbe un gran perchè

E’ bellino. Ma non cattura.

Lo fa, al contrario, l’Heinz Nixdorf MuseumsForum: il più grande museo di computer al mondo. Mi aspetto un pomeriggio noioso; ne esco dopo ore, soddisfattissimo.

Paderborn finisce qui. Come mi dirà Renè, il ragazzo che mi dà un passaggio verso Dortmund, Paderborn va presa per quello che è: “Una tranquilla e onesta cittadina per famiglie”.

Accosta con la sua Micra rossa, dal motore che va come un minipimer, davanti alla stazione. Mi saluta e mi augura di godermi la città, dove lui è stato solo una volta nella vita, perché “Boh, non c’è niente di bello da vedere”.

Aveva ragione. A parte stadio e museo del Borussia Dortmund, non c’è nulla di interessante. Qui si lavora e si produce. Operaia. Per monumenti e arzigogolii, rivolgersi altrove. 

Mi spiace per Signal Iduna, ma, per me, sarà sempre il Westfahlen

Renè prima, Maurizio poi: “Ah sei italiano! E cosa diavolo ci fai da ste parti!?”. “Non so, vedo cose nuove”.  

Ancora mi chiedo perché non gli ho chiesto cosa lui, napoletano di meno di trent’anni, facesse lì.


Ad Hagen, mezz’oretta di treno da Dortmund, tra vallate e paesaggi dalle grandi potenzialità. Un freddo gelido, secco. Pare di essere in alta montagna.

Ancora mi sento nelle ossa la nebbia di Amburgo: motivo buono per starmene in casa due giorni, uscendo solo per comprare pane e fazzoletti al negozio all’angolo gestito da un indiano. 



Questo il racconto della mia permanenza. Qui, invece, i link ai post riguardanti i burrascosi viaggi di andata e ritorno: 


Di consigli sbagliati, aerei persi e bus poco coraggiosi

Ad Amburgo ho visitato anche il fantastico museo Wondelund:  

- Amburgo: foto dal Miniature Wunderland

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