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venerdì 25 novembre 2016

Vynohradiv è un posto brutto


Stando alla maggior parte dei travelblogger, o chi per loro, ogni luogo visitato, anche il più insignificante e sperduto, ha sempre una “vista mozzafiato”, un “tramonto romantico”, qualche “scorcio imperdibile”.Mah...

Io sarò onesto: vi scrivo da un posto brutto.

Vynohradiv è una cittadina della Transcarpazia: Ucraina occidentale, un’ora abbondante di macchina dall’Ungheria. Circa trenta mila abitanti. In sostanza, due viali grandi, paralleli e trafficati.

Vesto a cipolla, ma il sole mi salva. Splende, facendo risaltare i colori delle case. L'atmosfera perde parte del suo grigiore. Almeno questo…

Quest’aria post-sovietica e desueta può colpire e interessare. Solo le prime volte. Una volta abituati a essere circondati dalle insegne in cirillico, il gusto della novità scema inesorabilmente. Fidatevi.

La piazzetta centrale

C’è vita, sin dal primo mattino, e questo mi sorprende. Le strade sono un continuo susseguirsi di negozi e attività. Tra un piccolo centro commerciale e una farmacia, madre e figlia vendono creme, cosmetici e profumi sul loro traballante banchetto di legno. La dura legge del mercato.

Le bancarelle stipate in una piccola vietta sono senza dubbio “caratteristiche”, ma sono talmente vicine l’un l'altra che mi manca l’aria. Dopo pochi metri, torno indietro.

C’è uno spiazzo dove riprendere fiato, teoricamente. Lì si fermano i bus: l’aria di montagna è tutt’altra cosa.

Le pensiline sono occupate da una ventina di donne anziane. Portano un velo sulla testa e hanno il viso profondamente segnato; sembra intarsiato. Stanno spalla a spalla, ma non si parlano. Prestano attenzione solo alle loro grandi buste.
Salgono sui pullman, o sui minivan con i vetri oscurati che le portano chissà dove. La sera stessa mi capiterà di vedere due signore distinte scendere dal retro di un furgone da lavoro, tipo Ducato. Intravedo l’interno del cassone mentre l’autista le aiuta a smontare: hanno viaggiato al buio, sedute per terra. Ma sorridono.
Le ammiro: del taxi che mi aveva portato a Vynohradiv, la sera prima, ricordo più che altro l'incessante cigolio e i continui sobbalzi provocati dall'asfalto pessimo. Le malridotte strade del centro del Portogallo, percorse un anno fa, in confronto, sono un tappeto rosso.

Una Lada malandata, con il pretenzioso spoiler distintivo della versione “GT Sport”, strombazza perché l’ingorgo davanti alla fermata non gli va a genio. In pochi gli danno retta. Di sicuro, non l’autista della corriera. Ognuno pensa agli affari propri. Alle proprie magagne. Come la vecchia inginocchiata qualche metro più avanti: chiede l’elemosina mostrando un raccoglitore con le pagine plastificate, come quelli che si usano a scuola. Mostra ai passanti la propria cartella clinica, con tanto di fototessera e timbro ospedaliero, sperando di smuovere qualche animo gentile. Mi dice qualcosa in ucraino; ovviamente, non capisco.

Io, qui, non capisco nulla. So una manciata di parole in russo e nulla più; inutili. Questa è terra di confine con l’Ungheria: la seconda lingua è il magiaro. I cartelli delle vie hanno doppia dicitura.

Gabor, l’uomo che mi ha dato il passaggio in macchina da Budapest a Beregove, primo approdo in terra ucraina, parlava perfettamente entrambe le lingue. Ha fatto del "car sharing" (termine quanto mai svuotato del suo reale significato) il suo lavoro, come normale da queste parti. Un andirivieni continuo di macchine e furgoncini che fanno la spola, pagati per traghettare dall'altra parte della dogana. Tutto molto semplice e, tutto sommato, sicuro.
L’Ungheria è Europa vera, ha più possibilità. Sconfinare equivale a entrare in un altro mondo: cambia il fuso orario, cambia la moneta, cambia la qualità di vita. Ci si può reinventare. E i doganieri non sono così scrupolosi. Ricordo le mille domande prima e dopo il volo Vilnius-Kiev; e le due ore di attesa sul pullman Cracovia-Leopoli: un timbro che sembrava non arrivare mai.

Il turismo, qui, non c’è. Sono una mosca bianca. Veder girovagare uno straniero, quando il sole è ancora alto, non è usuale. Lo capisco da alcuni sguardi. In città ci sono altri forestieri, ma si trattengono per lavoro: albergo, taxi, affari, uffici, forse un drink nell’unico ristorante decente nei paraggi.

Tra le due vie principali, una lunga isola pedonale


Bevo un caffè che non è male, leggo un poco nella piazzetta. Ma è metà pomeriggio e l’aria comincia a pungere. Meglio tornare in hotel.

Riapri il libro, ti aggrappi al tablet, sperimenti la ginnastica da camera e aspetti la cena. Più che ordinare quello che vuoi, ordini quello che puoi. Impossibile farti capire. Ti passa la voglia. E alle dieci già sei a letto.








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