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lunedì 28 novembre 2016

A Kiev, ormai, sono il "ragazzo del diciannove"


Andare sui tappeti elastici era bello. Una volta sceso, però, mi rimaneva quella strana sensazione nella testa: come se continuassi ad andare su e giù, su e giù.

Se chiudo gli occhi mi sembra di essere ancora in treno. Tu-tum, tu-tum.
Il viaggio da Mukachevo a Kiev dura quindici ore, perlopiù notturne. In condizioni più che umane, ma il vero riposo è altra cosa. Quanto avrei voluto essere l'uomo che ha occupato la cuccetta sotto la mia: è salito, ha poggiato i bagagli, uno zaino e una busta, ha sistemato il fine materassino, si è messo le cuffie, ha dato un ultimo colpo di telefono, forse a casa, ed è crollato. Ancora vestito. Un sonno filato, fragoroso.

Mi salva il vento gelido di Kiev: effetto anestetizzante. Meglio uscire e digrignare i denti, piuttosto che sentirsi gli scambi ferroviari sottopelle.

Le nonnine del mercato di Pankyvska Street affrontano il freddo a mento alto. Le intravedo attraverso i miei due cappucci e la larga sciarpa. Non sono insensibili; semplicemente, rispondono al dovere. Ogni giorno riempiono le bancarelle di quello che la terra gli ha dato. Ti invitano a saggiare il loro kurd, le loro spezie e la frutta secca. Espongono grandi forme di miele solidificato; il dolce fatto solo di olio e semi di girasole dà dipendenza.
Il cielo è grigio, ed è mezzogiorno di sabato: vanno conclusi gli ultimi affari.

Un centesimo di euro ti vale una cipolla, tre centesimi una zuppa per due. Che va servita calda, col pane tostato, quando ormai è buio e te ne infischi del mercurio in picchiata libera. Dalle finestre, la vista che ormai conoscono bene. Anche se il palazzone di Peremohy Square con l’immagine della Madonna è stato ridipinto. Me ne accorgo subito.
Le portinaie dello stabile, ormai, mi riconoscono. Un attimo di esitazione, poi capiscono che sono lo straniero del diciannove. “Devyatnadtsat'” (diciannove) chiedono loro; “Da, adin-devyat'” (Sì, uno-nove) rispondo io, aiutandomi con le dita delle mani, come gli alunni mentre fanno i calcoli.

Come si può facilmente notare, fa freschino

Meglio rimettere il naso fuori quando c’è luce, e Khreschatyk è chiusa alle macchine. Sembra ancora più imponente. E il nuovo centro commerciale all'angolo, tanto nuovo che ancora stanno ritoccando gli ultimi dettagli delle pretenziose porte d'ingresso, parla chiaro: “Tu, comune mortale dalle tasche sottopeso, qui non puoi entrare”. Obbedisco.

Memento
Ed eccola lì, a due sole corsie di distanza, la fila davanti alla Kyivska Perepichka. Alla terza volta a Kiev no, non posso davvero sottrarmi. La perepichka è un famoso cibo da strada, inventato e venduto solo qui. Una finestrella che smazza a ripetizione questi panzerottini ripieni di salsiccia. Un rito da dieci gryvna, quattro euro malcontati. Faccio la fila, con ordine, pena una ramanzina della bambina che mi precede, impegnata a mantenere anche papà in perfetta fila indiana.
Il primo morso convince. È buona. Nonostante sia chiaramente un accumulo di grasso, è buona. Pasta che copre una salsiccia, servita dopo un bagno in olio. Me l'avevano presentata come un mostro a tre teste, ma un classico hot dog americano ne è un parente vicino. Anzi, States battuti.

Cammino soddisfatto, più che altro per aver trovato il “coraggio”. E vengo premiato con la mia prima neve di quest’inverno. Solo qualche coriandolo sbriciolato dall’alto. Pare carta. Come quella del fazzoletto che hai lasciato nella tasca dei jeans prima di lavarli, trasformatosi in odiosa poltiglia appiccicata al tessuto. Di soppiatto, te ne liberi per strada, lasciando la scia. Prima di mettere in lavatrice, controllare cento volte.



In precedenza:

Vynohradiv è un posto brutto



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