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sabato 22 ottobre 2016

Workshop con Claudio Visentin: dalla penna, che "è un'antenna", alla mia prima bicicletta


Reporter non ci si inventa. Ci vuole lavoro, costanza, passione, autocritica. Quattro ore e un eccelso interlocutore, Claudio Visentin, bastano per schiudere gli occhi: mettere in fila due parole senza errori grammaticali su un qualsiasi angolo del mondo non significa potersi definire “reporter di viaggio”. Si è semplicemente qualcuno che, trovata la voglia, spende un po’ del proprio tempo libero con la penna in mano. Che male, comunque, non fa.

Per aspirare a qualcosa in più serve altro: saper organizzare una rotta interessante, distinguerne i dettagli rilevanti, pianificare il proprio iter compositivo con coscienza e saggezza, rifiutando paletti troppo rigidi.

E allora ben vengano gli occhi pesanti e l'aria sfatta di sabato pomeriggio. La levataccia è stata ben ripagata. E i duecento chilometri mentre il sole sorge, pure. 

Mattinata volate come nulla fosse. Un workshop sulla scrittura di viaggio vissuto con interesse, spensieratezza e passione. Zeppelin l’ha pensato, e bisogna dirgli grazie (speriamo non sia un evento isolato). 

Il reportage ha, come ogni tipo di narrativa, un suo codice. Regole precise ma elastiche, che richiedono una solida base alle spalle. Ovviamente, nel caso si voglia far le cose “per bene", così che rimanga tracce delle nostre avventure. Perchè "la penna è un'antenna": strumento che trasmette segnali e vita. 

Poco a che fare con la diaristica, la cronostoria dei nostri spostamenti o il “semplice” racconto delle nostre vacanze tra i bei tramonti, che sono sempre “mozzafiato", e i castelli, che, invece, sono sempre “arroccati”.

Tanti e preziosi i suggerimenti da annotare, che il relatore ha introdotto con puntualità e chiarezza. Prima di proporci la tanto temuta esercitazione: step determinante per la piena comprensione. Astenersi inutili timidezze.

Traccia: “La mia prima bicicletta”. Descrivila in poche righe, cercando di applicare, per quanto possibile, ciò che hai assorbito. Ognuno con la sua storia, le sue scelte stilistiche, i suoi errori. Senza passi falsi, d’altronde, che gusto ci sarebbe? E poi dai, siate clementi: in venti minuti non si può fare troppo...

Anche il mio breve elaborato era tutt’altro che impeccabile (e ci mancherebbe). Ed è, ancora adesso, una bozza imperfetta. Ma ve lo ripropongo qui, specificando che solo l’incipit è stato letto ad alta voce e quindi discusso con Claudio Visentin e "la classe". Il resto del testo, invece, è un salto nel buio.

P.S.: Non è uno stratagemma per sentirsi dire: “Bravo, che bello, wow, super, carino, sei il nuovo Fabio Volo (me ne scampino)”; o “Ammazza che ciofeca”. Cioè, potete benissimo farlo, ma l’intento è quello di ripercorrere ciò che ho vissuto e fatto questa mattina. Per raccontarvelo, sperando che, un domani, anche voi abbiate l'occasione di partecipare a un workshop simile. 

Inoltre, la pubblicazione lo cristallizza. A mò di memento. Così che, tra qualche anno, dandogli un occhiata, non potrò che mettermi le mani tra i capelli (già averli ancora tutti sarebbe un successo). Perché il bravo scrittore, come mi è stato suggerito stamane, deve sempre progredire, e rileggendosi si "compatirà". 

Ah, dimenticavo: ci si basa sul verosimile. Anche perché i ricordi, nel mio caso, erano confusi. Quindi “persone e fatti sono solo liberamenti ispirati ad avvenimenti realmente accaduti”. A voi.

                       

La mia prima bicicletta

“No Marco, non c’è bisogno di una bici nuova; c’è già quella vecchia di Silvia”: disse mamma. Mi sentii morire dentro.

A dieci anni, alla costante ricerca dell’ammirazione di compagni di scuola e squadra, una bici da donna. Anzi, da femmina.

Di quelle che non hanno nemmeno la canna su cui fare salire gli altri. Di quella forma strana, all’ingiù, inutile.

Avrei preferito mi regalasse la Graziella della nonna. Quella, perlomeno, aveva il portapacchi per il pallone.

Scappai in garage. La sfidai con gli occhi, la odiai e le chiesi: “Come posso farti sembrare una bici da Marco?”. Corsi in camera e presi tutti gli Uniposca possibili. Tornai da lei e iniziai a tatuarla: teschi, saette, scritte punkeggianti, “Forza Atalanta” a caratteri cubitali, “Il Pirata” sul retro del sellino per imitare Pantani (beato lui: tutte quelle bici belle, da maschio).

Andai in piazza; mi guardarono strano. Feci finta di nulla, ma decisi che no: non potevo. Vide più polvere che asfalto. Meglio a piedi.

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