venerdì 22 aprile 2016

Il pagellone della regular season NBA: Southwest Division


SAN ANTONIO SPURS (67-15), voto 9.5


Le imprese dei Warriors hanno catalizzato l’attenzione globale, ma è stato impossibile ignorare quanto fatto dagli Spurs. Solo quindici sconfitte, con un record casalingo di 40-1 impreziosito da uno scarto medio di circa 15 punti. Inoltre, l’onore di poter essere considerati, numeri alla mano, la miglior difesa della storia NBA.

Capite da soli che si sta parlando di una stagione pazzesca. A maggior ragione se si pensa che questo è, a tutti gli effetti, un anno di svolta per i texani: i vecchi saggi, infatti, hanno ufficialmente lasciato la leadership tecnica della squadra alle “nuove leve”, Kawhi Leonard e LaMarcus Aldridge. Duncan, Parker e Ginobili vigilano e controllano lo spogliatoio, ma non possono, anche se spesso ci zittiscono, essere decisivi come una volta.

Aldridge e Leonard: le punte dei "nuovi" Spurs (foto dal web)

Un nuovo equilibrio trovato non senza difficoltà. Perché Aldridge ha sofferto a lungo il sistema Popovich. Solo negli ultimi due mesi è sembrato davvero parte degli schemi. Che sono stati anche cambiati e smussati, proprio per cavalcare le sue spiccate caratteristiche, soprattutto in attacco.

Sistemato anche quest’ultimo ingranaggio, l’orologio ha ripreso a girare senza intoppi: Leonard spaziale un po’ ovunque, West, Diaw e Mills a dare energia e nuove soluzioni dalla panchina, il vecchio trio a dettare pallacanestro senza affanni e troppe pressioni. Insomma, tutti importanti e fondamentali. Persino Marjanovic.

Top: Kawhi Leonard. Migliore difensore della Lega per il secondo anno consecutivo, nonché attaccante cinque stelle super lusso. Dove abbia trovato questa qualità offensiva, lo sa solo lui. Isolamenti, jumper, penetrazioni, affidabilità da tre: giocatore di completezza sconvolgente.

Flop: nessuno/ al massimo Danny Green. In realtà non merita una bocciatura. E’ un anello essenziale della catena. Solo che non ha mai trovato continuità da fuori. Tutto qui. Ma fa tante altre cose di importanza capitale.

 

DALLAS MAVERICKS (42-40), voto 7.5


Il “gran rifiuto” estivo di DeAndre Jordan aveva spiazzato e costretto a rivedere i piani. In fretta e furia, tra l’altro. Dall’aggiunta di uno dei migliori centri della Lega, alla disperata rincorsa a gente che facesse numero e potesse dare sostanza.

Tentativo dopo tentativo, Cuban ha messo in mano a Carlisle una squadra con molte incognite, tanti operai ed elementi non più di primo pelo in cerca di riscatto.

Quadretto improbabile che, però, ha portato inaspettati dividendi. Pachulia e Mejri controllano il pitturato con poca eleganza ma tanta vitalità; Deron Williams e Felton, abbandonato il viale del tramonto, sono tornati ai vecchi fasti. Aggiungiamoci un Dirk Nowitzki epico, un Matthews in crescita, un Justin Anderson sorprendente e tanti altri segnali positivi (Barea solito peperino, David Lee subito negli schemi, ecc…), e il gioco è fatto. Per gran merito di Rick Carlisle, fine stratega e conoscitore del Gioco.

La qualificazione alla post season non era pronosticata. Per questo, è stata ancor più piacevole.

Roster alla mano, non è una squadra con gran futuro, ma professionalità e voglia di migliorarsi sempre non hanno età.

Top: Dirk Nowitzki. Tutti quegli anni e non sentirli. Sempre lo stesso modo di giocare e dominare. Magari con ancora meno atletismo e impegno difensivo (eterni punti deboli del tedesco), ma freddezza unica e classe ancor più immensa.

Flop: JaVale McGee. Vabbè, “troppo facile” direte voi. In effetti… Javalone nostro ha trovato un contratto per la stagione e, all’inizio, ha anche avuto minuti. Poi, dopo uno scivolone dietro l’altro, l’inevitabile esilio sul fondo della panca.


MEMPHIS GRIZZLIES (42-40), voto 6.5


Una stagione stranissima. Talmente frammentata che è persino difficile riassumerla in poche righe. Un susseguirsi di infortuni, periodi positivi e crisi che, comunque, non ha precluso la qualificazione ai playoff. La resilienza regala una sufficienza piena.

Andamento sinusoidale: partenza orrenda, riscatto perentorio, nuovo rallentamento dovuto agli infortuni, incredibile resurrezione (visto il roster), appagamento finale. Sembra uno scherzo, ma è andata così.

Ha deciso tutto il destino. Diciamo che la Dea bendata ha dato le spalle alla franchigia del Tennessee: fuori Gasol, fuori Conley, fuori Chalmers, acciacchi per Randolph e quasi tutto il resto della rosa.

Serie di sfortune a cui la dirigenza ha risposto, gioco forza, con un mercato attivissimo che ha ridisegnato il gruppo. Che ora appare talmente improbabile da sembrare irreale: Matt Barnes, Stephenson, Randolph, Farmar, Birdman… Accozzaglia di uomini e "caratterini" che suona come farsa.

Sgomitando, coach Joerger è comunque riuscito a reggere la baracca. Applausi per lui e un “in bocca al lupo” per l’anno prossimo, quando, quasi certamente, si ritroverà un roster nuovamente stravolto.

Top: Mike Conley. Solo 56 partite. Comunque sufficienti per dimostrare di essere una point-guard di eccellente livello. Nel periodo d’oro della stagione, è stato il trascinatore. Forse anche più di Marc Gasol.

Flop: Brandan Wright. Giocatore che tutti aspettano. Passa di squadra in squadra cercando l’occasione buona. Ha talento, atletismo e stima degli addetti ai lavori, ma anche una dose di jella niente male. Sempre rotto. Non riesce ad avere continuità.


HOUSTON ROCKETS (41-41), voto 6

Sufficienza dovuta esclusivamente alla sofferta qualificazione playoff, peraltro immeritata e last minute.

Una squadra prigioniera dei propri limiti che sorprende per la capacità di sprecare il grande potenziale a disposizione. Difetti enormi che, però, l’anno scorso non avevano impedito di arrivare sino alla finale di Conference.

James Harden: attaccante miciadiale, difensore imbarazzante (foto dal web)
A sto giro, invece, i texani hanno cominciato a pagare le proprie grane sin da subito: partenza orrenda e licenziamento di McHale, in rotta con spogliatoio e dirigenza. Bickerstaff al comando e la rimonta. Molto stentata e rallentata. Non a caso, è arrivato solo un ottavo posto.

Ma non si tratta di un allenatore piuttosto che di un altro. Questo gruppo non può andare lontano, perché si trascina atavici e irrisolvibili problemi: la mancanza di un vero leader, l’impalpabilità difensiva, la questione Howard, i blackout continui e repentini, un atteggiamento mai positivo e vincente.

E per girare pagina, magari in corsa, non serve aggiungere gente tipo Beasley o Josh Smith. Possono sì garantire punti, ma non quella serenità, tecnica ed emotiva, di cui avrebbe bisogno questo roster.

Idee troppo confuse, fuori e dentro il campo.

Top: James Harden. Non difende, forza tanti tiri, a volte gioca in infradito, non è una guida vocale, non fa spogliatoio. Ma, anche così, mette 30 punti a referto, smazza assist a ripetizione e schernisce qualsiasi avversario. Ha doti offensive immense e un talento sconfinato. Peccato che il pacchetto non sia completo.

Flop: Terrence Jones. Smith era andato ai Clippers, lasciando libero il posto da ala grande. Terrence, però, non ha fatto nulla per meritarsi la conferma in quintetto. Con Bickestraff, solo panchina. La sua storia a Houston sembra al capolinea.


NEW ORLEANS PELICANS (30-52), voto 4


In estate, la coraggiosa mossa: via il buon Monty Williams e squadra affidata ad Alvin Gentry, con la speranza di diventare i nuovi Warriors. Azzardo pazzesco, anche perché NOLA era reduce da un lodevole ottavo posto a ovest.

La scommessa non ha pagato. Anzi, è stata un suicidio. Non solo per colpa di Gentry. L’ex assistente di Kerr, infatti, ha dovuto fare i conti, da subito, con una serie di sfortune senza fine. Tutti rotti, uno dietro l’altro. Quintetto ideale sfaldato, panchina inesistente, necessità di mettere giocatori sotto contratto anche solo per arrivare a una decina di elementi. Quadro straziante, in cui è oggettivamente impossibile lavorare come da programma.

New Orleans ha buttato via un anno, senza mai avere la reale possibilità di migliorare e tradurre sul campo la filosofia del nuovo staff tecnico.

Poco da aggiungere: stagione quasi ingiudicabile.

Top: Anthony Davis. Come ovvio, il migliore dei suoi ogni volta che è sceso in campo (roba da 25 punti e 10 rimbalzi). Il problema è che ha allacciato gli scarpini solo 61 volte, confermando la sua cronica fragilità. La sua completa maturazione sta subendo un irritante rallentamento.

P.S. Considerando la continuità, merita di essere sottolineata l’egregia annata di Ryan Anderson.

Flop: Omer Asik. Imbarazzante e avulso da qualsiasi cosa. Vaga per il campo stile "The Walking Dead". 


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